Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 4 agosto 2012
Autore: Marco Zoppi
Sostenere progetti di sviluppo a favore delle popolazioni in
difficoltà o ricattarne i governi? Qual è la vera natura degli aiuti
internazionali allo sviluppo?
Alcune
recenti vicende sembrano evidenziare un
possibile ritorno in voga dell’aiuto vincolato, ovvero del
finanziamento di progetti di sviluppo cui si affiancano condizioni specifiche
da rispettare: a volte questi requisiti non sono stipulati di comune accordo
tra le parti, ma imposti successivamente dall’una sull’altra parte. Si prestano
a diventare dunque uno strumento di pressione nelle mani dei donatori, che
possono forzare così i paesi in via di sviluppo verso specifiche scelte
politiche se vogliono continuare ad essere beneficiari del flusso di aiuti.
La direzione verso cui vengono forzati è in genere quella che
porta al pieno riconoscimento dei diritti umani e ad una governance efficiente,
ma il risultato nel breve periodo di tale politica può non essere scontato e,
soprattutto, positivo.
Si
parla di un ritorno dell’aiuto con il “ma” perché le condizionalità dietro
prestiti di somme di denaro a governi non sono affatto una novità.
Un esempio su tutti è lo stesso vecchio Piano Marshall, che in Europa garantì i
fondi per la ripresa post-secondo conflitto mondiale, richiedendo però che i
paesi beneficiari del finanziamento rispettassero le condizioni indicate dagli
Stati Uniti.
Non
si tratta di una novità neanche per l’Africa, che dagli anni ’80, dai tempi dei
Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAPs), ha imparato a convivere con
questa tipologia di aiuto (si prenda ad esempio il ‘tied aid’).
Negli
ultimi mesi alcuni episodi hanno mostrato come le generose elargizioni dei
governi occidentali possano diventare in qualsiasi momento un mezzo di ricatto. A fine
luglio, ad esempio, il Consiglio dell’Unione Europea ha emesso un comunicato per annunciare “l’immediata
sospensione delle misure (sanzioni n.d.r.) finora applicate” e l’avvio di
nuove collaborazioni finalizzate all’assistenza della popolazione bisognosa in
Zimbabwe.L’alleggerimento
delle sanzioni è
stato deciso in seguito al riconosciuto miglioramento della tutela dei diritti
umani e dopo l’invito inoltrato agli osservatori dell’UNHCR da parte del
paese dell’Africa australe.
Il comunicato aggiunge che la cinta potrebbe allargarsi
ulteriormente qualora si verifichino passi importanti in direzione dell’atteso
referendum costituzionale. Promesse che tuttavia sembrano tenere poco conto
della tensione palpabile che si respira in Zimbabwe riguardo alle prossime
elezioni (anche se è difficile trovare una tornata elettorale senza tensioni in
Zimbabwe) e in vista del referendum.
Proprio
il primo agosto è stata gettata nuova benzina sul fuoco dall’Unione dei contadini,
per i quali la bozza di Costituzione non garantirebbe a sufficienza i diritti
di proprietà della terra e svincolerebbe il governo di Mugabe dal pagamento dei
rimborsi a quanti furono espropriati dei propri possedimenti durante le riforme
del 2000. In
un clima pre-elettorale che può facilmente degenerare in violenze e
intimidazioni, le dichiarazioni dell’UE, per quanto finalizzate
all’incoraggiamento e difesa dei diritti umani, rischiano di alterare un
equilibrio che per ora è appeso a un filo per quanto siano esse tese all’incoraggiamento
e difesa dei diritti umani.
Più
recentemente è stato il Ruanda a vedere parte dei suoi aiuti congelati in
seguito alla diffusione del rapporto delle Nazioni Unite, secondo cui
Kigali sostiene e finanzia i ribelli dell’M23 nell’est della RDC. Il primo Stato a rivedere la
propria politica di aiuti è stato l’Olanda – paese dove peraltro è già stato
recentemente operato un taglio da un miliardo di euro per gli aiuti
internazionali. Amsterdam ha sospeso un contributo governativo di circa 7
milioni di dollari, scatenando la reazione dell’ambasciatore ruandese: “uno Stato
come l’Olanda, conosciuto per il suo forte sistema giudiziario e la sua
apertura, non dovrebbe prendere decisioni così affrettate sulla base di un
report inconsistente e non comprovato”.
A
ruota sono seguite la Gran Bretagna (il più grande donatore del Ruanda),
che ha deciso di rimandare l’approvazione di un budget di supporto a Kigali; la
Germania, che ha detto stop ad un pacchetto di aiuti da 26 milioni di dollari;
i paesi scandinavi, che hanno alzato la voce verso la Banca Africana dello
Sviluppo impedendo l’impiego di circa 39 milioni di dollari in progetti. Non
pochi soldi per un governo il cui budget annuale è composto perquasi metà da aiuti internazionali e che ora vede
a rischio un sesto della torta degli aiuti, aspettando la
possibile reazione di altri paesi donatori, nonché delle ONG operanti sul
territorio che al momento proseguono le loro attività.
Se
dovessero arrivare ulteriori prove del coinvolgimento ruandese, la chiusura dei rubinetti degli
aiuti sembra una soluzione giusta e inevitabile. Quanto però è
efficiente ai fini di uno sviluppo sostenibile il finanziamento diretto ai
governi, in cui l’utilizzo dei soldi messi a disposizione spesso sfugge al
controllo del donatore stesso? Possono generarsi situazioni di stallo in cui i
primi, e forse gli unici a rischiare, sono i beneficiari dei progetti di
cooperazione, gli attori più vulnerabili.
Che bisogni invece ritrovare la fiducia (si guardi ai tagli
della cooperazione decisi in Italia) nelle organizzazioni non governative,
anche quelle africane che stanno nascendo negli ultimi anni, in grado di
assicurare un uso più trasparente delle risorse?
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