BBC News - Africa

martedì 22 gennaio 2013

Eritrea: ammutinamento contro il governo


Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 22 gennaio 2013.

Autore: Marco Zoppi





Tentativo di colpo di Stato in Eritrea, ieri 21 gennaio. La notizia è stata confermata dalle principali emittenti internazionali, ma i dettagli sono circolati col contagocce al di qua della cortina eritrea.
Secondo le prime ricostruzioni, lunedì mattina, intorno a mezzogiorno ore italiane, un contingente di cento soldati ha circondato il ministero dell’informazione con l’ausilio di alcuni mezzi (si parla di due carri armati). All’interno della struttura si trovava anche la figlia del presidente eritreo, .

giovedì 10 gennaio 2013

Africa: come cambia il conflitto nel XXI secolo




Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 5 gennaio 2013.
 Autore: Marco Zoppi




Un intero decennio di guerre globali, quello che va dal 2000 al 2009, è stato analizzato nel report annuale Human Security del 2012, della cui stesura si occupa lo Human Security Report Project (Hsrp), centro di ricerca affiliato all’università Simon Fraser di Vancouver.

La mole di dati messi a disposizione per il lasso di tempo preso in considerazione arricchisce di risvolti interessanti anche il contesto africano, che di conflitti ne ha registrati a decine. Che piaccia o no, l’aritmetica delle guerre africane è un esercizio utile per capire cosa sta cambiando e quali sono gli attori coinvolti.

La regione sub-sahariana nel 2000 usciva da una decade particolarmente sanguinosa che rafforzava l’immagine, certamente stereotipata, che il continente fosse terra di hic sunt leones. Emblematico il genocidio del Ruanda del 1994, il massacro compiuto contro circa mezzo milione di Tutsi con i machete comprati dalla Cina per 750.000 dollari, al ritmo di 5500 morti al giorno. Drammatico anche il caso della Repubblica democratica del Congo, che tra il 1998 e il 2003 è stata teatro del più sanguinoso conflitto dopo la seconda guerra mondiale, tomba per cinque milioni e mezzo di persone (e che non senza ragione viene indicata da alcuni come Terza guerra mondiale). Ci sono poi i due milioni di morti in Sudan, i 400.000 morti in Liberia e i 500.000 stimati in Somalia; la guerra civile in Sierra Leone ha causato almeno 50.000 morti e per fare l’Eritrea libera ci hanno rimesso la vita in più di 150.000. E l’elenco potrebbe continuare.

In una prospettiva globale, fino a dieci anni fa il 93% dei morti in guerra – militari e civili – cadeva sul suolo africano (dati Hsrp). Ma i dati del report dicono anche che l’Africa sub-sahariana non è stata l’area del mondo caratterizzata dalle guerre civili più violente. Sono il Medio oriente e l’Asia centrale le aree a più alta intensità. Nel decennio in considerazione c’è stata una diminuzione in Africa del 15% di conflitti civili, e circa il 90% in meno sono stati, in media, i caduti registrati per ogni singola guerra.

D’altro canto, i conflitti coinvolgono in misura sempre maggiore attori non statali. Con più frequenza i protagonisti degli scontri sono gruppi di ribelli, signori della guerra, oppure organizzazioni e comunità: è questo il secondo dato importante.

Nove delle undici guerre (con attori non-statali coinvolti) che hanno fatto registrare almeno 1000 morti nell’arco di un anno hanno avuto luogo in Africa. Un dato che fa del continente l’area mondiale dove si sono verificati i più violenti conflitti di questo tipo, 18 l’anno, con picchi di violenza nella regione dei Grandi Laghi (si pensi alla RdC) e nel Corno d’Africa.

Quando poi uno Stato terzo interviene in un conflitto già in corso, sostenendo esplicitamente o meno i ribelli, il rischio di escalation – è bene saperlo – aumenta del 192%, come riportato nello studio di Kristine Eck citato dal report, in virtù del rafforzamento militare e logistico dei ribelli stessi. Questi “internationalized intrastate conflicts”, come vengono individuati dallo Hsrp, sono in costante aumento e determinano una maggiore difficoltà in termini di risoluzione e ritorno alla condizione di pace. L’attualità sembra confermare.

Questo significa, tra le altre cose, una dilatazione del conflitto nel tempo. Ecco che il report si chiede se “i conflitti durano davvero più di prima”, fermo restando, naturalmente, che nessuno sa quanto dureranno i conflitti ancora irrisolti scoppiati dal 2000 in poi. Sfidando le tesi di diversi ricercatori, tra cui Paul Collier, decano di studi politico-economici, lo Hrsp dimostra che la durata media degli episodi bellici è in discesa: dai 7 anni degli anni settanta ai 3 anni dell’ultima tranche analizzata.

Durata minore sì, ma il report specifica che l’80% dei nuovi conflitti – quasi cinquanta – verificatisi nel periodo considerato (2000-09) è legato ad episodi bellici precedenti. Quale interpretazione privilegiare? Nuove e brevi guerre a sé stanti, oppure continuità e latenza del singolo conflitto? Come giudicheremmo, con questi criteri, la Guerra dei Cent’anni con le sue tregue durate anni?

Secondo la formula adoperata dallo Hrsp, un bilancio annuale inferiore ai 25 morti determina la “fine di un episodio”, ma non necessariamente la fine di una guerra. Se il conflitto tra le parti riprende per le medesime dispute e provoca più di 25 morti, è registrato come nuovo episodio della stessa guerra. Se si sviluppa intorno a dispute che non si sono presentate in precedenza, è registrato invece come un nuovo conflitto.

Questa visione rischia di allontanare l’attenzione dalle ragioni che impediscono le condizioni per una pace duratura. Il report sostiene, per l’appunto, che anche “gli accordi di pace falliti salvano vite”. Ecco perché: “I bilanci delle vittime annuali nei conflitti ricominciati in seguito ad accordi di pace hanno registrato un calo dell’80%. Ciò rappresenta la più grande riduzione nei bilanci delle vittime rispetto a tutte le altre tipologie di chiusura del conflitto [come per esempio una vittoria netta di una delle parti oppure un cessate il fuoco, ndr]”.

Si intuisce che gli autori del report vogliano vedere il bicchiere mezzo pieno. Si deve, sì, gioire se delle vite umane sono messe in salvo in seguito ad un accordo, per quanto fallito sia, tra le parti in conflitto. Ma cosa dire di tutte le vittime che quella risoluzione mancata ha causato?

Il rischio è che l’interpretazione data alle statistiche possa influenzare governi e organizzazioni internazionali verso scelte non sempre efficaci.

La Somalia, di conferenze e incontri di pace falliti, ne ha segnati più di quaranta: applicando quanto indicato dal report, ci troveremmo dunque di fronte alla riedizione del paradosso di Achille e la tartaruga. Pur riducendosi di volta in volta il numero delle vittime, questo non arriva mai a zero – cioè ad una pace duratura. Potrebbe rivelarsi allora più efficace cambiare strategia per riportare stabilità, abbandonando l’approccio top-down che ha finora caratterizzato l’operato dell’Onu e delle organizzazioni internazionali e favorendo un’intesa che parte dal basso, come dimostrato dal successo del Somaliland.

Guardando ancora al caso somalo, si può considerare un’altra pace fallita comunque una vittoria? I dati dicono che la natura del conflitto sta cambiando, ma potrebbero piuttosto essere gli strumenti di analisi e intervento delle organizzazioni internazionali ad essere entrati in crisi.