BBC News - Africa

domenica 4 novembre 2012

Nulla di nuovo sul fronte del Matabeleland



Autore: Marco Zoppi
Zimbabwe. E' notizia di qualche giorno fa che la polizia di Plumtree ha arrestato Norman Mpofu, accusato di non meglio specificate minacce rivolte ai sostenitori e capi tradizionali legati al partito del Presidentissimo Robert Mugabe.
Le minacce, indirizzate in occasione di un funerale, non sono tuttavia partite da un personaggio qualunque: Mpofu, infatti, è un ex membro del partito Movement for Democratic Change – Tsvangirai (MDC-T), principale partito d'opposizione allo ZANU-PF di Mugabe, ed è stato inoltre segretario provinciale in Matabeleland: agli occhi di Mugabe, due colpe gravissime.
Per questo, non pochi sono i dubbi riguardo alla legittimità dell'arresto, ed anzi i sospetti che si tratti di un'intimidazione o di una ritorsione sono molto forti. All'appello, infatti, manca un ulteriore dettaglio: circa un mese fa, Mpofu aveva portato Mugabe di fronte alla Commissione Elettorale affinché si potessero tenere elezioni straordinarie in alcune circoscrizioni i cui seggi erano rimasti vacanti: la Commissione aveva in seguito dato ragione al coraggioso segretario e dunque invitato il governo restio a procedere, ma infine fu Mugabe a spuntarla sostenendo che non vi erano i fondi sufficienti per tenere le elezioni. 
Questa storia è una meta-storia che si inserisce all'interno della vicenda che lega Robert Mugabe alla regione meridionale del Matabeleland. Dove non a caso, sulla scia del referendum di gennaio 2011 in Sudan, il Matabeleland Liberation Front (MLF) aveva dato vita in via provocatoria ad un governo autonomo. E dove, sempre non a caso, l'intelligence dello ZANU-PF è molto attiva.
La storia è lunga come quella dello Zimbabwe e oltre:
Il Matabeleland (indipendente fino al 1894) è, da sempre, una regione travagliata: situata nella parte occidentale e meridionale dello stato, è abitata da quasi due milioni di abitanti (un sesto del totale) di prevalente etnia Ndebele, considerata una minoranza dal governo centrale. Mentre la rivolta anti-inglese del 1896, che qui ha avuto luogo, è celebrata in tutto il paese, ed enfatizzata da Mugabe, come prima Chimurenga [1] (guerra di liberazione, una parola chiave nella storia dello Zimbabwe), la regione ha perso tutta la sua simpatia presso il leader in seguito all'indipendenza nazionale raggiunta nel 1980, in quanto teatro dello scontro armato tra lo ZANU (partito di Mugabe) e lo ZAPU (secondo partito [2] del Paese, guidato da Nkomo). La miccia degli scontri è rappresentata da un comizio di Enos Nkala, uno dei leader ZANU  nello Matabeleland, in cui minacciò una repressione sullo ZAPU, particolarmente forte nella regione. Ciò che seguì fu violenza da ambo le parti, affidate ai bracci armati dei due partiti. Mugabe diede il via all'operazione Gukurahundi servendosi della terribile V brigata, che si distinse per l'incendio di capanne con i suoi residenti ancora all'interno e l'uccisione di innocenti all'interno delle toilette pubbliche, mentre erano ancora seduti sull'asse. I due partiti si sono affrontati fino al 1988, quando si raggiunge un'amnistia che pesa 18000 morti e che vede la nascita dello ZANU-PF, generato dalla fusione dei due partiti fratricidi (ed attuale schieramento di Mugabe, per restare in tema). Da qui, il "tradizionale" odio reciproco tra Mugabe e Matabeleland, che nella pratica significa violenza pre-elettorale da un lato, e nessun seggio per lo ZANU-PF dall'altro, in un ciclo che, con la regolarità della stagione delle piogge, si presenta puntualmente ogni volta che c'è da votare.
Reduce da questi difficili trascorsi, la regione presentava già delle formazioni dai nomi inequivocabili, come il Matabeleland Freedom Party, il Patriotic Union of Matabeleland e il Zapu Federal Party, a cui si è aggiunta la nascita dell'MLF, in una fase molto delicata per il continente africano, tra le agitazioni del Nord arabo, il "precedente" della separazione del Sudan, e il referendum per una nuova costituzione le seguenti elezioni nello stesso Zimbabwe, previste per il 2012, ma che sembrano slittare sempre di più all'anno nuovo.
L'ultimo partito nato, l'MLF, non sembra tuttavia in grado di apportare novità importanti: l'ipotesi più plausibile è che resti schiacciato dai suoi competitori (vedi lista sopra) da un lato, e da Mugabe stesso, dall'altro.

In compenso, la tensione nella regione rimane alta in vista (anche se in Zimbabwe sono sempre in vista) delle elezioni.
Secca infatti è stata anche la chiusura del (MDC-T), principale partito d'opposizione allo ZANU-PF, che ha definito il MLF un partito nato "dalla sera alla mattina con l'obiettivo di confondere gli elettori", congratulandosi con la popolazione per "aver snobbato la presentazione del partito da parte di individui che cercando di abusare delle differenze etniche della popolazione, manovre pericolose per una giovane democrazia come lo Zimbabwe". Inoltre, i partiti si rinfacciano a vicenda di contenere al loro interno membri più o meno riconducibili allo ZANU-PF.

[1]  Generalmente si fa riferimento a tre Chimurenga (guerre di liberazione): la prima è quella a cui si accenna nel post, la seconda si riferisce al periodo di guerriglia tra il 1966 e il 1979 terminato con l'indipendenza, e la terza (che Mugabe ha particolarmente a cuore) è iniziata nel 2000 con la riconquista della terra da parte della popolazione esclusa a causa del lento andamento della riforma agraria.


[2] 
Elezioni del 1980
Partito
Voti validi
%
Seggi
Zanu (PF) Mugabe
1,668,992
63
57
PF - ZAPU (Nkomo)
638,879
24
20
UANC (Muzorewa)
219,307
8
3
ZANU (Sithole)
53,343
2
-
ZDP (Chikerema)
28,181
1
-
NFZ (Mandaza)
18,794
1
-
NDU (Chiota)
15,056
1
-
UNFP (Ndiweni)
5,796
0
-
UP AM
1,181
0
-
Totale
2,649,529
100
80



lunedì 15 ottobre 2012

La Banca Mondiale avverte la Nigeria: senza petrolio tra 40 anni





Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 13 ottobre 2012.
 Autore: Marco Zoppi


La scorsa settimana è stato pubblicato l’Africa’s Pulse, il report semestrale redatto dalla Banca Mondiale che analizza le prospettive di crescita del continente africano: una delle sue sezioni prende in esame la composizione delle entrate statali e la dipendenza di queste economie dalle risorse naturali. Quando si guarda ai tassi di crescita sostenuti di molti paesi in Via di Sviluppo africani, alla loro uscita dalla soglia di povertà e all’ampliamento del ceto medio nazionale, è sempre opportuno chiedersi su cosa si stia fondando questo sviluppo economico.

Leggendo il lavoro svolto dalla BM, ci si accorgerà ben presto che è possibile dividere questi Stati in due categorie: quelli che hanno imparato a differenziare la loro produzione ed export, e altri che invece sono pericolosamente dipendenti da una o poche risorse i cui ricavi derivati costituiscono percentuali altissime delle entrate statali e delle vendite oltre confine. Nella seconda categoria rientrano ad esempio il Gabon, la cui produzione di petrolio compone circa il 65% delle entrate e l’80% dell’export, seguito solo dal commercio di legname grezzo e risorse minerarie, e l’Angola, dove le attività legate al petrolio garantiscono gettito per il 50% del PIL.

Sul fronte della dipendenza dalla produzione di idrocarburiincrociando i dati dell’Africa’s Pulse, il caso più interessante per le implicazioni politiche e sociali, oltre che economiche, che questa dipendenza comporta è sicuramente quello della Nigeria. Qui si concentrano alcune delle variabili più allarmanti per i prossimi decenni.

Si tratta innanzitutto dello Stato più popoloso del continente, nono per estensione territoriale nell’Africa Sub-Sahariana. Per quanti credono nella teoria del ‘piccolo è meglio‘ si tratta di una considerazione di non poco conto, poiché una sua destabilizzazione avrebbe conseguenti ripercussioni di vasta portata in tutta l’Africa Occidentale. Il suo export è praticamente mono settoriale, e si concentra sul famigerato petrolio del Delta e sul gas che insieme hanno assicurato alle casse statali 65 miliardi di dollari, l’80% delle entrate nel 2010.

Si tratta poi di uno Stato federale in forte tensione, prima di tutto per la mancata equa distribuzione dei guadagni tra la popolazione: “i soldi ricavati dal petrolio non passano per i cittadini, e questi non percepiscono il benessere come proprio” sostiene il report semestrale della Banca Mondiale. Tristemente nota è la popolazione degli Ogoni, una delle 350 tribù che si contano in Nigeria, simbolo della comunità che sopravvive a fatica in un ambiente devastato dalle perdite degli oleodotti e dal fenomeno del gas flaring.

Infine, e questo è il dato chiave, il petrolio che ha finora finanziato e tenuto in piedi un sistema corrotto, quello dell’everyday deception (il raggiro quotidiano), abilmente raccontato da Daniel Jordan Smith, potrebbe finire nel giro di pochi decenni. 41 anni di estrazione residui ai livelli di produzione del 2011, secondo la previsione oltremodo precisa della Banca Mondiale incapsulata nel report e in questi giorni ampiamenteriportata da tutti i principali canali di informazione nigeriana.

Ciò costringe la classe politica più responsabile, la popolazione, le organizzazioni internazionali governative e non, e tutti gli stakeholders a quello scomodo esercizio che è immaginare un futuro per la Nigeria senza l’oro nero. Scomodo, si intende, perché le alternative per ora non sono molte e il tempo a disposizione è limitato.

Un fallimento nel sostituire le entrate petrolifere con fonti alternative farebbe saltare i meccanismi, spesso corrotti, che mandano avanti il gigante sub-sahariano.

Economie fortemente dipendenti da una risorsa tendono ad individuare e sviluppare con fatica settori alternativi. Il 92% delle banconote in Guinea Equatoriale sono sporche di petrolio, ma il governo  e il presidente Obiang fanno finta di non saperlo. Probabilmente perchè quest’ultimo è impegnato a gestire un patrimonio personale stimato in 600 milioni di dollari, mentre il resto dell’economia ristagna e il Mouvement d’Autodetermination de l’Ile de Bioko preme per la secessione.

Come si prospetta un futuro senza petrolio per la Nigeria? Di colpo, le aree devastate dalle attività estrattive si rivelerebbero in tutta la loro inutilità, e “inutilizzabilità” a livello economico. Se il turismo non è già più nella agenda da anni, è impensabile anche bonificare in tempi brevi e con spese ridotte almeno una parte della superficie contaminata. Ciò comporterebbe un aumento della povertà e la fine di ogni tipo di attività collaterale connessa all’estrazione, in un paese in cui ad oggi il 20% della popolazione più povera ha accesso al solo 5,1% della ricchezza nazionale. Comunità che non hanno mai visto un soldo ricavato dal petrolio, che si sono accollate la maggior parte dei danni da esso provocati e che nutrono risentimento e un’inquietante disaffezione dal governo centrale.

Oltre a questo problema, di per sé già enorme, c’è quello dell’amministrazione pubblica, oggi abituata a funzionare tramite dinamiche di clientelismo, attingendo dalle casse federali come fossero un pozzo senza fondo. Come si riconfigurerebbe il gettito del paese senza il costante afflusso di soldi provenienti dal petrolio? Chi detterebbe le nuove regole del gioco? E come reagirebbero gli esclusi, per esempio, negli alti ranghi dell’esercito?

La stessa produzione di energia sostenibile diventerebbe problematica: uno Stato che non incentiva produzioni alternative di energia, non promuove l’iniziativa imprenditoriale locale, né tanto meno incoraggia gli investimenti esteri, tradizionalmente avversi al rischio. Nelle zone rurali, dove vive più della metà dei nigeriani, si fa ancora largo uso della legna come combustibile. Il  trend della deforestazione va peggiorando, e l’enorme potenziale delle biomasse viene ignorato.

La Nigeria ha bisogno di una politica energetica nazionale integrata che possa guidare lo sviluppo di risorse alternative nei prossimi anni, migliorare la gestione attuale delle risorse non rinnovabili e provvedere alla costruzione delle infrastrutture necessarie. Novità e risposte potrebbero arrivare dal Forum ECOWAS previsto a fine mese ad Accra, Ghana, il cui tema è proprio quello dell’energia sostenibile e efficienza energetica in Africa Occidentale.

Devastazione ambientale, tensione sociale e politica, stagnazione economica riempiono un ipotetico scenario futuro. Problemi che necessitano di risposte immediate. Fino ad allora, il futuro della Nigeria appare nero, e questa volta non per il petrolio.

giovedì 20 settembre 2012

Il “piccolo impedimento” del passato sulla penisola contesa del Bakassi



Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 18 settembre 2012.
Autore: Marco Zoppi


La tormentata vicenda della penisola del Bakassi trova probabilmente la sua sintesi perfetta nelle parole di Lord Salisbury, primo ministro britannico che nel 1890 dichiarò candidamente che:
Siamo stati impegnati a disegnare linee su mappe dove nessun uomo bianco aveva mai poggiato piede, abbiamo concesso monti e fiumi e laghi a ognuno, ostacolati solo da un piccolo impedimento, ovvero che non avevamo mai saputo esattamente dove si trovassero queste montagne, fiumi e laghi
Chissà cosa sarebbe accaduto se il premier avesse avuto modo di vedere cosa ne è stato del Bakassi: avrebbe, ci auguriamo, ripensato a quel “piccolo” impedimento. Oggi, addirittura, c’è chi parla della penisola in termini di un potenziale Kashimir dell’Africa Occidentale.
Perché si torna a parlare del Bakassi a quasi 10 anni dal verdetto della Corte Penale Internazionale, che aveva stabilito che il lembo di terra conteso tra Nigeria e Cameroon era sotto la sovranità di Yaoundé? La risposta si trova proprio in quel numero, dieci anni. L’articolo 61 della decisione della Corte del 10 ottobre 2002 stabilisce che nessuna domanda di revisione può esserle inoltrata oltre il limite di 10 anni. Dunque, meno di un mese per la Nigeria prima di perdere ogni possibilità (legale) di rivalsa su un verdetto che non le è mai andato giù.

A ricordare l’imminenza del termine ultimo è stato l’ordine degli avvocati nigeriani (NBA), per il quale il Camerun si è reso colpevole di continue violazioni dei diritti fondamentali della popolazione del Bakassi, individuando tuttavia delle responsabilità anche del governo nigeriano.
In particolare, l’Associazione riporta che molti residenti sono stati costretti dalle autorità di Yaoundè a cambiare la loro cittadinanza nigeriana, assumendo quella camerunense con il fine ovvio di “naturalizzare” la penisola e giocare così la carta demografica al tavolo delle negoziazioni. Alcuni di quelli che si sono rifiutati, continua il documento dell’ NBA, hanno vissuto anche l’esperienza del carcere.
Su queste basi, l’NBA ha sollecitato il governo nigeriano a ricorrere presso la Corte Internazionale di Giustizia entro la scadenza fissata del 10 ottobre, prima cioè che questa possibilità svanisca per sempre.
Una riapertura del fascicolo da parte del governo nigeriano rinvigorirebbe le speranze e aspirazioni dello Stato più popoloso d’Africa, a scapito però dell’equilibrio dell’area, che finirebbe nuovamente sotto il morso della tensione. Dal momento dell’indipendenza dei due Stati, sono state numerose le bagarre di confine che hanno non di rado anche lasciato morti sul campo: basti ricordare gli incidenti di confine e le tensioni del 1981, del 1992, del ’94 e di nuovo nel ’96.

In fondo, ci sono tutti gli ingredienti classici che purtroppo hanno caratterizzato storicamente alcuni dei conflitti più sanguinosi nel Continente africano e che fanno della penisola del Bakassi un case study perfetto. Una vicenda, quella del Bakassi, che è un altrettanto valido esempio per comprendere gli effetti di lungo periodo del colonialismo sulle società africane.

Prima di tutto, l’elemento etnico: il confine imposto dalla Corte ha diviso inevitabilmente la popolazione, distribuendo appartenenti della stessa famiglia nelle due nazioni. Il Camerun, inoltre, ha accusato a più riprese la Nigeria di fare uso della differenza demografica (circa 130 milioni) per popolare il Bakassi, così da rafforzare la sua posizione. Come si è visto, le autorità camerunensi hanno risposto imponendo cambiamenti forzati della cittadinanza.

In secondo luogo, le risorse. La regione è di grande interesse economico per le sue presunte risorse naturali, in particolare di petrolio e gas naturali. Mancano ancora riscontri ufficiali, ma sono diverse le multinazionali impegnate in trivellazioni di pozzi esplorativi e Nigeria e Camerun avevano già raggiunto un accordo per sfruttare congiuntamente le risorse del sottosuolo.

Infine, il passato coloniale. I confini degli Stati, tracciati con totale approssimazione, diventano oggi un facile e pericolo pretesto dal momento in cui hanno perso la loro legittimità agli occhi degli africani e sono di conseguenza rimessi in discussione, dando animo a istanze nazionaliste dalle conseguenze imprevedibili.
Il Bakassi resta dunque conteso tra due nazioni. Uno scontro armato di grandi proporzioni sembra essere un’ipotesi da scartare. Tuttavia, nuovi episodi analoghi a quelli accaduti a più riprese in passato (brevi incursioni militari da ambo le parti, scontri tra civili) sono una minaccia reale. Per contro, i paesi coinvolti hanno anche mostrato a più riprese la volontà di negoziazione e di risoluzione pacifica della disputa, come dimostrato dal Green Tree Agreement, dallo stesso ricorso all’ICJ e dal successivo rispetto del verdetto da parte della Nigeria
Questa è una volontà che non deve essere frustrata. Tuttavia, ammesso anche che la Nigeria faccia ricorso presso la Corte dell’Aia, la situazione non cambierà di tanto, e un ribaltamento del verdetto non appare come un’opzione credibile.
La responsabilità della risoluzione pacifica sembra quanto mai sulle spalle degli Stati interessati. Una prova di maturità politica e una sfida all’eredità del colonialismo: solo unpiccolo impedimento, nelle parole di Lord Salisbury.

mercoledì 5 settembre 2012

Madagascar: due presidenti per una poltrona




Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 3 settembre 2012
 Autore: Marco Zoppi


I due leader che hanno spaccato a metà la storia politica recente del Madagascar si sono incontrati l’ultima volta lo scorso 8 luglio su Desroches, un’isoletta dell’arcipelago delle Seychelles.

Da un lato Andry Nirina Rajoelina, 38 anni, attuale presidente dell’Alta Autorità di Transizione, il massimo organismo di potere malgascio che ha assunto le sue funzioni in seguito al colpo di Stato del 21 marzo 2009 guidato dallo stesso Rajoelina. Dall’altro Marc Ravalomanana, ex presidente in fuga in Sudafrica, il cui ritorno pacifico in Madagascar è oggetto degli incontri internazionali.

La rivalità tra i due è sempre stata forte e ha intralciato fatalmente tanto gli interessi politici che quelli economici dei due presidenti, che vantano anche una fruttuosa carriera da imprenditori.

Rajoelina entra in politica sfruttando la porta aperta dal successo e della notorietà (nel suo curriculum si legge: ex DJ, organizzatore di eventi e concerti, proprietario di una radio e TV) proprio negli anni della presidenza di Marc Ravalomanana. Finché nel dicembre del 2007 si candida con successo come sindaco della capitale Antananarivo.

Da allora lo scontro è stato continuo. Tra le storie più famose che hanno valicato i confini nazionali c’è quella della Daewoo. Il gruppo sudcoreano aveva raggiunto l’accordo con il presidente deposto per l’acquisto di 1,3 milioni di ettari di terreno finalizzato alla produzione di granturco e olio di palma, salvo poi vedersi stracciare l’accordo dopo l’insediamento di Rajoelina, fortemente contrario alla “svendita” del territorio nazionale.

In mezzo a questa storia ci sono anche i morti dei primi mesi del 2009, quando durante le proteste in piazza contro le politiche definite autoritarie di Ravalomanana l’esercito spara sui manifestanti. Il bilancio è di 130 morti e segna la fine politica del presidente, che incalzato dall’esercito ammutinato e abbandonato dai suoi lascia il Paese il 17 marzo per trovare asilo in Swaziland e poi in Sudafrica.

E’ da queste premesse partono i reconciliation meeting, che hanno visto alternarsi nel tempo mediatori delle Nazioni Unite, Didier Ratsiraka e Albert Zafy (ex presidenti del Madagascar), rappresentanti dell’Unione Africana, dell’Organizzazione Internazionale per la Francofonia e della SADC (Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale).

L’impegno profuso sembra dare risultati e prospettive di stabilità: secondo Tomaz Salomão, Segretario Generale della SADC, gli unici punti non risolti nel penultimo incontro alle Seychelles del 25 luglio erano il ritorno di Ravalomanana e le elezioni presidenziali e parlamentari, sulle quali restava da decidere se dovevano tenersi simultaneamente o no. Che direzione abbia preso il successivo e ultimo incontro di Desroches dell’8 agosto non è chiaro, ma sembrerebbe che anche il problema delle elezioni sia stato in qualche modo risolto, prevedendo due turni a maggio e luglio 2013. Un ulteriore tavolo di trattative è stato offerto dall’incontro dei capi di Stato e di governo dei membri della SADC, terminato a Maputo il 18 agosto, al quale sono stati entrambi invitati a partecipare.

L’ultima questione, e non di poco peso, è dunque il rientro a Antananarivo del presidente eletto democraticamente Ravalomanana, sul quale grava la condanna a vita ai lavori forzati emessa da una corte messa in piedi subito dopo il colpo di Stato del 2009 e mai riconosciuta dall’opposizione. Rajoelina ha scoperto le sue carte subito dopo il vertice dell’8 agosto, dichiarando che il ritorno al potere del suo rivale è una prospettiva da tenere lontana “a tutti i costi”: “Quando Ravalomanana è salito al potere nel 2002, c’erano morti ovunque sull’isola. Quando se ne è andato [è stato rovesciato n.d.r.] c’erano morti. Ora siamo nel 2012, e vuole tornare al potere. Costi quel che costi, non deve”.

Dichiarazioni che non lasciano spazio per una soluzione pacifica e che non assicurano l’incolumità tanto del presidente quando dei suoi sostenitori in caso di un ritorno.

Nel frattempo si avvicina la data dell’8 maggio 2013, individuata dai due in seguito alle pressioni della SADC per l’election day presidenziale secondo la roadmap firmata nel settembre 2011. Due presidenti per una nazione e pochi mesi per risolvere l’ultima questione pendente prima delle elezioni che potrebbero mettere fine a quelli che tra poco saranno 4 anni di instabilità politica. Inevitabile supporre che la riappacificazione dovrà necessariamente passare dal ritiro di uno dei presidenti dalla prossima corsa elettorale.

Rajoelina si è detto pronto a lasciare, se il suo gesto può contribuire a “salvare la nazione”, ma alla condizione che Ravalomanana non rimetta piede in Madagascar. E allora una figura chiave potrebbe emergere da uno degli altri otto partiti malgasci coinvolti nella roadmap.


Ma se due candidati per una poltrona vanno già stretti, ci sarà posto per un terzo?

sabato 18 agosto 2012

Aiuto internazionale e politica: quando le strade si incontrano


Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 4 agosto 2012
Autore: Marco Zoppi

Sostenere progetti di sviluppo a favore delle popolazioni in difficoltà o ricattarne i governi? Qual è la vera natura degli aiuti internazionali allo sviluppo?


Alcune recenti vicende sembrano evidenziare un possibile ritorno in voga dell’aiuto vincolato, ovvero del finanziamento di progetti di sviluppo cui si affiancano condizioni specifiche da rispettare: a volte questi requisiti non sono stipulati di comune accordo tra le parti, ma imposti successivamente dall’una sull’altra parte. Si prestano a diventare dunque uno strumento di pressione nelle mani dei donatori, che possono forzare così i paesi in via di sviluppo verso specifiche scelte politiche se vogliono continuare ad essere beneficiari del flusso di aiuti.

La direzione verso cui vengono forzati è in genere quella che porta al pieno riconoscimento dei diritti umani e ad una governance efficiente, ma il risultato nel breve periodo di tale politica può non essere scontato e, soprattutto, positivo.
Si parla di un ritorno dell’aiuto con il “ma” perché le condizionalità dietro prestiti di somme di denaro a governi non sono affatto una novità. Un esempio su tutti è lo stesso vecchio Piano Marshall, che in Europa garantì i fondi per la ripresa post-secondo conflitto mondiale, richiedendo però che i paesi beneficiari del finanziamento rispettassero le condizioni indicate dagli Stati Uniti.

Non si tratta di una novità neanche per l’Africa, che dagli anni ’80, dai tempi dei Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAPs), ha imparato a convivere con questa tipologia di aiuto (si prenda ad esempio il ‘tied aid’).

Negli ultimi mesi alcuni episodi hanno mostrato come le generose elargizioni dei governi occidentali possano diventare in qualsiasi momento un mezzo di ricatto. A fine luglio, ad esempio, il Consiglio dell’Unione Europea ha emesso un comunicato per annunciare “l’immediata sospensione delle misure (sanzioni n.d.r.) finora applicate” e l’avvio di nuove collaborazioni finalizzate all’assistenza della popolazione bisognosa in Zimbabwe.L’alleggerimento delle sanzioni è stato deciso in seguito al riconosciuto miglioramento della tutela dei diritti umani e dopo l’invito inoltrato agli osservatori dell’UNHCR da parte del  paese dell’Africa australe.

Il comunicato aggiunge che la cinta potrebbe allargarsi ulteriormente qualora si verifichino passi importanti in direzione dell’atteso referendum costituzionale. Promesse che tuttavia sembrano tenere poco conto della tensione palpabile che si respira in Zimbabwe riguardo alle prossime elezioni (anche se è difficile trovare una tornata elettorale senza tensioni in Zimbabwe) e in vista del referendum.
Proprio il primo agosto è stata gettata nuova benzina sul fuoco dall’Unione dei contadini, per i quali la bozza di Costituzione non garantirebbe a sufficienza i diritti di proprietà della terra e svincolerebbe il governo di Mugabe dal pagamento dei rimborsi a quanti furono espropriati dei propri possedimenti durante le riforme del 2000. In un clima pre-elettorale che può facilmente degenerare in violenze e intimidazioni, le dichiarazioni dell’UE, per quanto finalizzate all’incoraggiamento e difesa dei diritti umani, rischiano di alterare un equilibrio che per ora è appeso a un filo per quanto siano esse tese all’incoraggiamento e difesa dei diritti umani.

Più recentemente è stato il Ruanda a vedere parte dei suoi aiuti congelati in seguito alla diffusione del rapporto delle Nazioni Unite, secondo cui Kigali sostiene e finanzia i ribelli dell’M23 nell’est della RDC. Il primo Stato a rivedere la propria politica di aiuti è stato l’Olanda – paese dove peraltro è già stato recentemente operato un taglio da un miliardo di euro per gli aiuti internazionali. Amsterdam ha sospeso un contributo governativo di circa 7 milioni di dollari, scatenando la reazione dell’ambasciatore ruandese: “uno Stato come l’Olanda, conosciuto per il suo forte sistema giudiziario e la sua apertura, non dovrebbe prendere decisioni così affrettate sulla base di un report inconsistente e non comprovato”.

A ruota sono seguite la Gran Bretagna (il più grande donatore del Ruanda), che ha deciso di rimandare l’approvazione di un budget di supporto a Kigali; la Germania, che ha detto stop ad un pacchetto di aiuti da 26 milioni di dollari; i paesi scandinavi, che hanno alzato la voce verso la Banca Africana dello Sviluppo impedendo l’impiego di circa 39 milioni di dollari in progetti. Non pochi soldi per un governo il cui budget annuale è composto perquasi metà da aiuti internazionali e che ora vede a rischio un sesto  della torta degli aiuti, aspettando la possibile reazione di altri paesi donatori, nonché delle ONG operanti sul territorio che al momento proseguono le loro attività.

Se dovessero arrivare ulteriori prove del coinvolgimento ruandese, la chiusura dei rubinetti degli aiuti sembra una soluzione giusta e inevitabile. Quanto però è efficiente ai fini di uno sviluppo sostenibile il finanziamento diretto ai governi, in cui l’utilizzo dei soldi messi a disposizione spesso sfugge al controllo del donatore stesso? Possono generarsi situazioni di stallo in cui i primi, e forse gli unici a rischiare, sono i beneficiari dei progetti di cooperazione, gli attori più vulnerabili.

Che bisogni invece ritrovare la fiducia (si guardi ai tagli della cooperazione decisi in Italia) nelle organizzazioni non governative, anche quelle africane che stanno nascendo negli ultimi anni, in grado di assicurare un uso più trasparente delle risorse?