BBC News - Africa

lunedì 16 dicembre 2013

EU AND AFRICAN MIGRANTS: WHY THINGS ARE GETTING WORSE (FOR MIGRANTS)



Here you will find the link to my article which has been recently published on Wardheernews.com
In the essay, I argue that reaching Europe through the sea crossing to Lampedusa is getting more and more dangerous, both for the increasing patrol activities of European Union's FRONTEX and for the specific patterns of action of criminal organisations trafficking human beings between Africa and Europe.

Follow the link for the full text and please provide a feedback.


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sabato 16 novembre 2013

PARTICIPATION TO AMEC'S CONFERENCE, PRETORIA.





I have recently participated to a very interesting conference organised by the Afro-Middle East Centre in Pretoria, South Africa (5-6 November 2013). The conference was titled "In whose interests? Exploring Middle East Involvement in Africa"

The theme of the conference was the political-economical involvement of Middle East in Africa in a broad sense. A very fresh topic since much of what has been dealt with during the conference are on-going phenomena. My contribution focused on Saudi Arabia's agenda: however, I have decided to focus on those which I have called side effects, to show that cooperation has also its dark, unpredictable aspects that we have to take into account. In my provisional paper, I have thus analysed the link existing between Saudi involvement and the rise of Islamism in Somalia and Mali.

Have a look to my paper: "Exploiting the religious link: Saudi Agenda in Africa and its impact in Somalia and Mali", if you like, here:

lunedì 28 ottobre 2013

Pubblicazione "Porta d'Africa Porta d'Europa Percorsi di interazione interculturale"





Gli atti del Convegno "L'Africa verso un futuro multipolare", tenutosi a Benevento il 27 aprile 2013, sono stati pubblicati lo scorso 8 settembre nel volume "Porta d'Africa porta d'Europa: percorsi di interazione interculturale".
All'interno, è disponibile il mio contributo presentato alla conferenza, dal titolo L'Africa in transizione tra locale e globale.

The conference proceeding for "Africa towards a multipolar future" have been published in Italian language. Inside the book, my contribution with the title "Africa in transition, between local and global".

venerdì 18 ottobre 2013

PUBLISHED ARTICLE ON JOAUS VOL. 1, ISSUE 1, 2013





Here is the link to my latest contribution on the Journal of African Union Studies, JOAUS (Adonis & Abbey).

The essay ("The OAU and the question of borders") appeared on JOAUS' special issue titled "Critical Reflections on the OAU’s 50th Anniversary Commemoration and the AU Agenda Towards 2063"


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lunedì 23 settembre 2013

Swaziland: interview with Mr. Phakathi, PUDEMO Secretary General


Interview with Mr. Phakathi, Secretary General of PUDEMO, the largest opposition movement in Swaziland. Originally published on Equilibri.net (19th September 2013), one day ahead of the second round of elections.

La mia intervista al leader di PUDEMO, il più grande movimento di opposizione alla monarchia assoluta di re Mswati III. Apparsa il 19 settembre scorso su Equilibri.net

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martedì 17 settembre 2013

Prospettive del federalismo come strumento di riconciliazione in Somalia



Un resoconto degli scenari possibili in Somalia, dove la nuova costituzione del 2012 getta le basi per un ordinamento federale. Articolo apparso sul sito internet del Centro Studi Internazionali (CE.S.I.) il 17 giugno 2013

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venerdì 26 luglio 2013

Atlantic slave trade and Africanization of Brazil

 


La mia ultima pubblicazione, apparsa il 25 luglio 2013 sul sito di Pambazuka in occasione dello special issue 640 sul Brasile in Africa.

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sabato 16 marzo 2013

PEDOFILIA: LA VERSIONE DEL PAPABILE SUD AFRICANO




Nel conclave che ha eletto Papa Francesco c’era anche lui, Wilfrid Fox Napier, l’Arcivescovo di Durban, Sud Africa. Settantatre anni, nero e con una visione tutta sua della pedofilia.

In una intervista rilasciata il 16 marzo all’emittente inglese BBC, ha acclarato la dimensione tutta psicologica della pedofilia, considerandola un disordine mentale che deve essere curato, non punito. Un’altra perla nella collana di affermazioni imbarazzanti sostenute da preti riguardo la pedofilia ecclesiastica.

“Se io, normale essere umano” – ha spiegato Fox Napier, “scelgo di infrangere la legge, sapendo di farlo, allora ritengo che la punizione sia giusta”. Ma un pedofilo, secondo l’Arcivescovo, non sa di infrangere la legge, perché non è in grado di controllare né arginare quella che è una malattia mentale. “Non venitemi a dire che quelle persone [i pedofili, ndr] sono responsabili di fronte alla legge come chi decide consapevolmente di infrangerla. Non penso che sia davvero possibile prendere posizione e dire che quella persona merita di essere punita”. 

La pedofilia è una forma di disturbo della sessualità, che accorda preferenza erotica al bambino che non può essere individuo consenziente per via della sua età. La pedofilia è uno stupro, e dunque anche un reato criminale, e per tanto va punito di conseguenza, con la detenzione e tutte le misure del caso (allontanamento da luoghi frequentati da bambini, per esempio). Non secondo l’arcivescovo, per il quale in seguito ad un periodo di cura, l’individuo può essere riabilitato in quanto guarito. E nel caso di un prete pedofilo, quale sarebbe il suo luogo di riabilitazione? Di nuovo la Chiesa? La struttura a cui i cristiani affidano l’educazione morale dei propri figli, stimolandone ed incoraggiandone la frequentazione?

Fox Napier ammettere di conoscere almeno due preti che hanno compiuto atti di pedofilia dopo esser stati essi stessi violentati in tenera età. Nelle argomentazioni dell’ex-papabile, questo esempio dovrebbe confermare la dimensione mentale del fenomeno, che necessita di cure mediche e niente più. Sembra invece darsi una zappa sul piede l’Arcivescovo: fatti come questo rendono ancora più evidente la necessità di punire, oltre che curare, soggetti di questo tipo. Il ciclo che trasforma la vittima in carnefice deve essere interrotto.

Un concetto che dovrebbe essere fondamentale per qualsiasi uomo di chiesa. E che dovrebbe essere particolarmente importante per qualunque sud africano, dato che in Sud Africa più di un decimo della popolazione è affetta da HIV, ovvero più di 5 milioni e mezzo di persone.

domenica 10 febbraio 2013

Presidente Afwerki: nessun motivo per essere apprensivi


Nessun motivo per essere apprensivi. A dirlo è lo stesso presidente eritreo, naturalmente con riferimento ai fatti del 21 gennaio 2013, il giorno dell'ammutinamento.

La notizia è apparsa sul sito del Ministero dell'Informazione; le informazioni sull'accaduto saranno fornite "a tempo debito", è aggiunto nel breve comunicato.

sabato 9 febbraio 2013

Israele, contraccezione forzata sulle immigrate etiopi




Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 6 febbraio 2013.
Autore: Marco Zoppi


Per la prima volta Israele riconosce di aver costretto le immigrate etiopi a subire iniezioni contraccettive per entrare nel paese. Il 28 gennaio, Roni Gamzo, direttore del ministero della salute israeliano, ha emesso una direttiva ufficiale con cui si è rivolto a medici e associazioni di ginecologi (che operano soprattutto nei campi profughi e in quelli di transito per i migranti verso Israele) avvisandoli di “non somministrare il Depo-Provera a donne di origine etiope senza il loro consenso”. Il contenuto della lettera suona come una – seppur timida – ammissione di quanto in passato era sempre stato negato.

giovedì 7 febbraio 2013

La rete americana in Africa


Autore: Marco Zoppi

In questa mappa (cliccaci su per visualizzarla full-size), frutto dell'incrocio di dati dal Washington Post e altri siti di informazione, sono evidenziati punti nevralgici che, a vario titolo, contribuiscono a creare la rete dell'aviazione americana in Africa, volta al controllo e contrasto dei pirati e dei terroristi.

Legenda:
1.Nouakchott, Mauritania. Fino al 2008, velivoli PC-12 con pilota partivano da qui per sorvegliare i movimenti di AQIM.
2.Ouagadougou, Burkina Faso. Al momento è la base USA più vicina alla zona calda del Maghreb. Da qui partono PC-12 diretti in Mali.
3.XXX, Niger. Sarà il nuovo centro caldo per le operazioni future, che vedranno l'utilizzo di droni senza pilota.
4.Nzara, Sud Sudan. C'è un piano per la costruzione di una nuova base qui.
5.Entebbe, Uganda. Da questa base decollano i PC-12 che forniscono dati di intelligence sul Lord's Resistance Army.
6.Arba Minch, Ethiopia. Una delle basi per il contrasto dei pirati somali a mezzo droni armati.
7.Camp Lemonnier, Gibuti. La base da cui sono stati condotti i maggiori attacchi ad Al-Shabaab in Somalia, ma anche contro Al-Qaeda nello Yemen meridionale.
8.Victoria, Seychelles. Altri droni destinati a contrastare i pirati sono partiti da qui.

sabato 2 febbraio 2013

Raggiunto l'accordo per l'istallazione di droni USA in Niger



Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 31 gennaio 2013.
Autore: Marco Zoppi


Gli Stati Uniti si preparano a rafforzare il controllo in Africa occidentale e a accelerare i tempi di reazione in caso di (altre) crisi regionali. Durante l’incontro di lunedì 28 gennaio tra l’ambasciatore americano in Niger e il presidente Issoufou (incontro preceduto da alcuni mesi di negoziazioni) si è raggiunta un’intesa sull’installazione di una base area per i droni a stelle e strisce in Niger.

martedì 22 gennaio 2013

Eritrea: ammutinamento contro il governo


Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 22 gennaio 2013.

Autore: Marco Zoppi





Tentativo di colpo di Stato in Eritrea, ieri 21 gennaio. La notizia è stata confermata dalle principali emittenti internazionali, ma i dettagli sono circolati col contagocce al di qua della cortina eritrea.
Secondo le prime ricostruzioni, lunedì mattina, intorno a mezzogiorno ore italiane, un contingente di cento soldati ha circondato il ministero dell’informazione con l’ausilio di alcuni mezzi (si parla di due carri armati). All’interno della struttura si trovava anche la figlia del presidente eritreo, .

giovedì 10 gennaio 2013

Africa: come cambia il conflitto nel XXI secolo




Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 5 gennaio 2013.
 Autore: Marco Zoppi




Un intero decennio di guerre globali, quello che va dal 2000 al 2009, è stato analizzato nel report annuale Human Security del 2012, della cui stesura si occupa lo Human Security Report Project (Hsrp), centro di ricerca affiliato all’università Simon Fraser di Vancouver.

La mole di dati messi a disposizione per il lasso di tempo preso in considerazione arricchisce di risvolti interessanti anche il contesto africano, che di conflitti ne ha registrati a decine. Che piaccia o no, l’aritmetica delle guerre africane è un esercizio utile per capire cosa sta cambiando e quali sono gli attori coinvolti.

La regione sub-sahariana nel 2000 usciva da una decade particolarmente sanguinosa che rafforzava l’immagine, certamente stereotipata, che il continente fosse terra di hic sunt leones. Emblematico il genocidio del Ruanda del 1994, il massacro compiuto contro circa mezzo milione di Tutsi con i machete comprati dalla Cina per 750.000 dollari, al ritmo di 5500 morti al giorno. Drammatico anche il caso della Repubblica democratica del Congo, che tra il 1998 e il 2003 è stata teatro del più sanguinoso conflitto dopo la seconda guerra mondiale, tomba per cinque milioni e mezzo di persone (e che non senza ragione viene indicata da alcuni come Terza guerra mondiale). Ci sono poi i due milioni di morti in Sudan, i 400.000 morti in Liberia e i 500.000 stimati in Somalia; la guerra civile in Sierra Leone ha causato almeno 50.000 morti e per fare l’Eritrea libera ci hanno rimesso la vita in più di 150.000. E l’elenco potrebbe continuare.

In una prospettiva globale, fino a dieci anni fa il 93% dei morti in guerra – militari e civili – cadeva sul suolo africano (dati Hsrp). Ma i dati del report dicono anche che l’Africa sub-sahariana non è stata l’area del mondo caratterizzata dalle guerre civili più violente. Sono il Medio oriente e l’Asia centrale le aree a più alta intensità. Nel decennio in considerazione c’è stata una diminuzione in Africa del 15% di conflitti civili, e circa il 90% in meno sono stati, in media, i caduti registrati per ogni singola guerra.

D’altro canto, i conflitti coinvolgono in misura sempre maggiore attori non statali. Con più frequenza i protagonisti degli scontri sono gruppi di ribelli, signori della guerra, oppure organizzazioni e comunità: è questo il secondo dato importante.

Nove delle undici guerre (con attori non-statali coinvolti) che hanno fatto registrare almeno 1000 morti nell’arco di un anno hanno avuto luogo in Africa. Un dato che fa del continente l’area mondiale dove si sono verificati i più violenti conflitti di questo tipo, 18 l’anno, con picchi di violenza nella regione dei Grandi Laghi (si pensi alla RdC) e nel Corno d’Africa.

Quando poi uno Stato terzo interviene in un conflitto già in corso, sostenendo esplicitamente o meno i ribelli, il rischio di escalation – è bene saperlo – aumenta del 192%, come riportato nello studio di Kristine Eck citato dal report, in virtù del rafforzamento militare e logistico dei ribelli stessi. Questi “internationalized intrastate conflicts”, come vengono individuati dallo Hsrp, sono in costante aumento e determinano una maggiore difficoltà in termini di risoluzione e ritorno alla condizione di pace. L’attualità sembra confermare.

Questo significa, tra le altre cose, una dilatazione del conflitto nel tempo. Ecco che il report si chiede se “i conflitti durano davvero più di prima”, fermo restando, naturalmente, che nessuno sa quanto dureranno i conflitti ancora irrisolti scoppiati dal 2000 in poi. Sfidando le tesi di diversi ricercatori, tra cui Paul Collier, decano di studi politico-economici, lo Hrsp dimostra che la durata media degli episodi bellici è in discesa: dai 7 anni degli anni settanta ai 3 anni dell’ultima tranche analizzata.

Durata minore sì, ma il report specifica che l’80% dei nuovi conflitti – quasi cinquanta – verificatisi nel periodo considerato (2000-09) è legato ad episodi bellici precedenti. Quale interpretazione privilegiare? Nuove e brevi guerre a sé stanti, oppure continuità e latenza del singolo conflitto? Come giudicheremmo, con questi criteri, la Guerra dei Cent’anni con le sue tregue durate anni?

Secondo la formula adoperata dallo Hrsp, un bilancio annuale inferiore ai 25 morti determina la “fine di un episodio”, ma non necessariamente la fine di una guerra. Se il conflitto tra le parti riprende per le medesime dispute e provoca più di 25 morti, è registrato come nuovo episodio della stessa guerra. Se si sviluppa intorno a dispute che non si sono presentate in precedenza, è registrato invece come un nuovo conflitto.

Questa visione rischia di allontanare l’attenzione dalle ragioni che impediscono le condizioni per una pace duratura. Il report sostiene, per l’appunto, che anche “gli accordi di pace falliti salvano vite”. Ecco perché: “I bilanci delle vittime annuali nei conflitti ricominciati in seguito ad accordi di pace hanno registrato un calo dell’80%. Ciò rappresenta la più grande riduzione nei bilanci delle vittime rispetto a tutte le altre tipologie di chiusura del conflitto [come per esempio una vittoria netta di una delle parti oppure un cessate il fuoco, ndr]”.

Si intuisce che gli autori del report vogliano vedere il bicchiere mezzo pieno. Si deve, sì, gioire se delle vite umane sono messe in salvo in seguito ad un accordo, per quanto fallito sia, tra le parti in conflitto. Ma cosa dire di tutte le vittime che quella risoluzione mancata ha causato?

Il rischio è che l’interpretazione data alle statistiche possa influenzare governi e organizzazioni internazionali verso scelte non sempre efficaci.

La Somalia, di conferenze e incontri di pace falliti, ne ha segnati più di quaranta: applicando quanto indicato dal report, ci troveremmo dunque di fronte alla riedizione del paradosso di Achille e la tartaruga. Pur riducendosi di volta in volta il numero delle vittime, questo non arriva mai a zero – cioè ad una pace duratura. Potrebbe rivelarsi allora più efficace cambiare strategia per riportare stabilità, abbandonando l’approccio top-down che ha finora caratterizzato l’operato dell’Onu e delle organizzazioni internazionali e favorendo un’intesa che parte dal basso, come dimostrato dal successo del Somaliland.

Guardando ancora al caso somalo, si può considerare un’altra pace fallita comunque una vittoria? I dati dicono che la natura del conflitto sta cambiando, ma potrebbero piuttosto essere gli strumenti di analisi e intervento delle organizzazioni internazionali ad essere entrati in crisi.