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sabato 18 agosto 2012

Aiuto internazionale e politica: quando le strade si incontrano


Pubblicato su Meridiani Relazioni Internazionali il 4 agosto 2012
Autore: Marco Zoppi

Sostenere progetti di sviluppo a favore delle popolazioni in difficoltà o ricattarne i governi? Qual è la vera natura degli aiuti internazionali allo sviluppo?


Alcune recenti vicende sembrano evidenziare un possibile ritorno in voga dell’aiuto vincolato, ovvero del finanziamento di progetti di sviluppo cui si affiancano condizioni specifiche da rispettare: a volte questi requisiti non sono stipulati di comune accordo tra le parti, ma imposti successivamente dall’una sull’altra parte. Si prestano a diventare dunque uno strumento di pressione nelle mani dei donatori, che possono forzare così i paesi in via di sviluppo verso specifiche scelte politiche se vogliono continuare ad essere beneficiari del flusso di aiuti.

La direzione verso cui vengono forzati è in genere quella che porta al pieno riconoscimento dei diritti umani e ad una governance efficiente, ma il risultato nel breve periodo di tale politica può non essere scontato e, soprattutto, positivo.
Si parla di un ritorno dell’aiuto con il “ma” perché le condizionalità dietro prestiti di somme di denaro a governi non sono affatto una novità. Un esempio su tutti è lo stesso vecchio Piano Marshall, che in Europa garantì i fondi per la ripresa post-secondo conflitto mondiale, richiedendo però che i paesi beneficiari del finanziamento rispettassero le condizioni indicate dagli Stati Uniti.

Non si tratta di una novità neanche per l’Africa, che dagli anni ’80, dai tempi dei Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAPs), ha imparato a convivere con questa tipologia di aiuto (si prenda ad esempio il ‘tied aid’).

Negli ultimi mesi alcuni episodi hanno mostrato come le generose elargizioni dei governi occidentali possano diventare in qualsiasi momento un mezzo di ricatto. A fine luglio, ad esempio, il Consiglio dell’Unione Europea ha emesso un comunicato per annunciare “l’immediata sospensione delle misure (sanzioni n.d.r.) finora applicate” e l’avvio di nuove collaborazioni finalizzate all’assistenza della popolazione bisognosa in Zimbabwe.L’alleggerimento delle sanzioni è stato deciso in seguito al riconosciuto miglioramento della tutela dei diritti umani e dopo l’invito inoltrato agli osservatori dell’UNHCR da parte del  paese dell’Africa australe.

Il comunicato aggiunge che la cinta potrebbe allargarsi ulteriormente qualora si verifichino passi importanti in direzione dell’atteso referendum costituzionale. Promesse che tuttavia sembrano tenere poco conto della tensione palpabile che si respira in Zimbabwe riguardo alle prossime elezioni (anche se è difficile trovare una tornata elettorale senza tensioni in Zimbabwe) e in vista del referendum.
Proprio il primo agosto è stata gettata nuova benzina sul fuoco dall’Unione dei contadini, per i quali la bozza di Costituzione non garantirebbe a sufficienza i diritti di proprietà della terra e svincolerebbe il governo di Mugabe dal pagamento dei rimborsi a quanti furono espropriati dei propri possedimenti durante le riforme del 2000. In un clima pre-elettorale che può facilmente degenerare in violenze e intimidazioni, le dichiarazioni dell’UE, per quanto finalizzate all’incoraggiamento e difesa dei diritti umani, rischiano di alterare un equilibrio che per ora è appeso a un filo per quanto siano esse tese all’incoraggiamento e difesa dei diritti umani.

Più recentemente è stato il Ruanda a vedere parte dei suoi aiuti congelati in seguito alla diffusione del rapporto delle Nazioni Unite, secondo cui Kigali sostiene e finanzia i ribelli dell’M23 nell’est della RDC. Il primo Stato a rivedere la propria politica di aiuti è stato l’Olanda – paese dove peraltro è già stato recentemente operato un taglio da un miliardo di euro per gli aiuti internazionali. Amsterdam ha sospeso un contributo governativo di circa 7 milioni di dollari, scatenando la reazione dell’ambasciatore ruandese: “uno Stato come l’Olanda, conosciuto per il suo forte sistema giudiziario e la sua apertura, non dovrebbe prendere decisioni così affrettate sulla base di un report inconsistente e non comprovato”.

A ruota sono seguite la Gran Bretagna (il più grande donatore del Ruanda), che ha deciso di rimandare l’approvazione di un budget di supporto a Kigali; la Germania, che ha detto stop ad un pacchetto di aiuti da 26 milioni di dollari; i paesi scandinavi, che hanno alzato la voce verso la Banca Africana dello Sviluppo impedendo l’impiego di circa 39 milioni di dollari in progetti. Non pochi soldi per un governo il cui budget annuale è composto perquasi metà da aiuti internazionali e che ora vede a rischio un sesto  della torta degli aiuti, aspettando la possibile reazione di altri paesi donatori, nonché delle ONG operanti sul territorio che al momento proseguono le loro attività.

Se dovessero arrivare ulteriori prove del coinvolgimento ruandese, la chiusura dei rubinetti degli aiuti sembra una soluzione giusta e inevitabile. Quanto però è efficiente ai fini di uno sviluppo sostenibile il finanziamento diretto ai governi, in cui l’utilizzo dei soldi messi a disposizione spesso sfugge al controllo del donatore stesso? Possono generarsi situazioni di stallo in cui i primi, e forse gli unici a rischiare, sono i beneficiari dei progetti di cooperazione, gli attori più vulnerabili.

Che bisogni invece ritrovare la fiducia (si guardi ai tagli della cooperazione decisi in Italia) nelle organizzazioni non governative, anche quelle africane che stanno nascendo negli ultimi anni, in grado di assicurare un uso più trasparente delle risorse?

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